Sopraggiunge, l'angoscia, quando si perde il centro. Essere e vita si separano. La vita è privata dell'essere e l'essere, immobilizzato, giace senza vita e senza avviarsi per questo né trovarsi a morire. Giacché per morire bisogna essere vivo e per il trapasso, vivente.

L'essere senza alcun contatto col suo centro giace, assoluto in quanto diviso; separato, solitario. Senza nome. Ignaro, inaccessibile. Peggio di un qualcosa, avanzo di qualcuno. Sprofonda senza per questo discendere né muoversi, né soffrire alterazione alcuna, resiste alla disgregazione incombente. E' tutto.



E la vita semplicemente si riversa dall'essere decentrato. Non trova luogo che l'accolga, rimessa alla sua sola vitalità. Angoscia del giovane, dell'adolescente e persino del bimbo che vaga e ha tempo, tutto il tempo, un tempo inabitabile, inconsumabile; situazione derivata dal non sottostare a un essere e, per suo tramite, a un centro. Tende a tornare alla sua condizione primaria, all'avidità colonizzatrice; si disperde e annega persino in se stessa, acque senza sponde, finché non incontra, se ha la fortuna di incontrarla, la pietra.

Reagire nell'angoscia o di fronte ad essa - Kierkegaard raggiunge su questo punto autorità di martire e di maestro - è l'inferno. La calma è indispensabile a chi la prova. La calma che non consiste nel tirarsi indietro, ma nel sottrarsi al semplice soffrire che è patire. In questo patire l'essere si desta, viene destandosi bisognoso della vita e della fiamma. La fiamma se ha resistito alla tentazione inerte di seguire la vita nel suo riversarsi. E quando la vita torna a raccogliersi è il momento in cui quel qualcuno che abita l'essere - se non l'essere stesso - stabilisce una distanza, una differenza di livello per non restare sommerso dall'impeto della vita come prima lo era stato dalla sua assenza. Già privo di spazio esso passa così a dominarlo, mentre viene semplicemente sollevato in una maniera inebriante. Passa dal restare senza vita a restare solo con quella vita parziale che torna docile come serva.

Perché la vita risponde come docile serva all'invocazione e alla chiamata di chi si presenta da padrone. Ha bisogno del suo padrone, di essere di qualcuno, per essere in qualche modo e per raggiungere in qualche maniera la realtà che le manca.

E la realtà emerge, quella dell'essere umano stesso e quella che egli ha bisogno di avere dinanzi a sé, solo in questa coniugazione dell'essere con la vita, in questa mescolanza, com'è noto, tutt'altro che stabile. E così, prima di articolarsi nella situazione terrestre - la situazione che conosciamo e soffriamo - una strana realtà è chiamata a fissarsi, quella dello stesso soggetto, dell'essere che ha acquistato la sua realtà per mezzo della vita e grazie ad essa. Dopodiché la vita, serva fedele, potrà ritirarsi, raggiunto ormai il suo scopo, finalmente appagata, senza più traccia di avidità. E lo farà lasciando sempre qualcosa della sua essenza germinante, non qualcosa di ideale e che come tale si possa afferrare bensì qualcosa che si può riconoscere solo fintanto che si sente, in quella forma - la più rara del sentire illuminante - che è direttamente, immediatamente conoscenza, senza mediazione alcuna. La conoscenza pura, che nasce nell'intimità dell'essere, e che lo dischiude e lo trascende, il "dialogo silenzioso dell'anima con se stessa" che cerca si essere ancora parola, la parola unica, la parola indicibile; la parola liberata dal linguaggio.

Dal testo di Marìa Zambrano Chiari del bosco, edizioni Feltrinelli.

http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/maria-zambrano/


Video 9". Maria Giovanna Morelli. 2018
Sopraggiunge l'angoscia. Pezzuola, frottage e acquerello, cotone. 2018. Maria Giovanna Morelli



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